Mandeville e la favola delle api (1° parte)


La prosperità

La Favola delle Api è una sorta di poemetto scritto da Bernard Mandeville, un medico del Settecento nato e cresciuto in Olanda e vissuto poi in Inghilterra, a Londra. Il poemetto ricalca lo schema delle favole di Esopo o di Fedro, tratte dalla letteratura classica, o di quelle di La Fontaine, presenti nella letteratura francese del ’600. Sono favole che si presentano come metafore, poiché traggono dal mondo degli animali esempi e raccontini che servono ad illustrare vizi e virtù degli uomini.
Mandeville si serve della metafora api-uomini, descrivendo un alveare ricco e prospero dove prevalgono il lusso, lo spreco e vizi d’ogni genere, dalla corruzione alla truffa. Ovviamente l’alveare è la rappresentazione della società umana, in particolare di una società dedita ai commerci, molto prospera e anche molto corrotta. Ma… le riflessioni dell’autore giocano sui paradossi e con il procedere della trattazione emerge l’incredibile intreccio fra vizi individuali e prosperità sociale. Contrariamente alla morale comune, l’autore abbina alle virtù la miseria ed ai vizi il benessere degli uomini.

UN RICCO ALVEARE
Così inizia la favola.

“Un vasto alveare ricco di api,
che viveva nel lusso e nell’agio,
e tuttavia era stato famoso per leggi ed armi,
quanto fecondo di grandi e precoci sciami,
era considerato la grande culla
delle scienze e dell’industria.
Le api non ebbero mai governo migliore,
……………………………........
non erano schiave della tirannide,
né governate dalla rozza democrazia;
ma da re, che non potevano fare torti, perché
il loro potere era limitato dalle leggi.”

Ecco l’alveare-società, dove gli individui possono sostenere elevati consumi, anzi addirittura dei lussi, e in questo modo fanno prosperare le scienze e l’industria. Inoltre l’alveare è retto da un buon governo, lontano dalla crudeltà di una tirannia e dagli eccessi di una caotica democrazia: vi è un re che rispetta puntualmente le leggi che le api si sono date. E’ chiaro il riferimento all’Olanda e all’Inghilterra del Settecento, due paesi che l’autore conosce bene e che nel loro tempo sono due stati politicamente avanzati, garanti delle libertà dell’individuo, diversamente da certe monarchie assolute, dove con facilità il monarca può trasformarsi in despota.

LA METAFORA ALVEARE - SOCIETA’ UMANA
Continua Mandeville, chiarendo bene la sua intenzione di parlare di api per parlare di uomini.

“Questi insetti vivevano come gli uomini,
e compivano in piccolo tutte le nostre azioni.
Facevano tutto quello che si fa in città,
…………………………….....................
sebbene le loro opere ingegnose, per l’esilità
delle membra minute, sfuggissero all’occhio umano.
Tuttavia non abbiamo macchine, operai,
navi, castelli, armi, artefici,
arte, scienza, bottega o strumento,
di cui non avessero l’equivalente;
e poiché il loro linguaggio ci è ignoto,
dobbiamo chiamarli come i nostri….”

RICCHEZZE ED IMBROGLI
L’identità fra il mondo delle api e il mondo degli uomini è perfetta. Che cosa si nasconde in questi due mondi?

“Grandi moltitudini affollavano il fecondo alveare,
ma proprio queste moltitudini lo facevano prosperare,
milioni che si sforzavano di soddisfare
ognuno la concupiscenza e la vanità degli altri;
mentre altri milioni si dedicavano
a consumare i loro manufatti.
Rifornivano metà dell’universo,
ma avevano più lavoro che lavoratori.
Alcuni, con grandi capitali e poca fatica,
si lanciavano in affari di grande guadagno;
altri erano condannati alla falce ed alla vanga
e a tutti i mestieri duri e faticosi,
in cui miserabili volenterosi sudano ogni giorno
e logorano forze e membra per mangiare.
Mentre altri seguivano mestieri,
per i quali pochi fanno gli apprendisti,
che non richiedono altro capitale che la sfrontatezza
e possono essere avviati senza un soldo:
come i truffatori, i parassiti, i mezzani, i giocatori,
i ladri, i falsari, i ciarlatani, gli indovini
e tutti coloro che, per inimicizia
verso il lavoro onesto, astutamente
volgono a loro vantaggio la fatica
del loro prossimo, buono e malaccorto.
Costoro erano chiamati furfanti, ma a parte il nome
i seri e industriosi erano uguali a loro.
Tutti i commerci e le cariche avevano qualche trucco,
nessuna professione era senza inganno“.

Eccoci giunti al tema fondamentale: una descrizione precisa, analitica ed anche distaccata e disillusa della società umana. L’alveare-società si presenta ricco, molto operoso, ma anche pieno di incredibili contraddizioni.
Subito emerge che la maggioranza degli uomini lavora, produce per quasi tutto il mondo e trova sempre che il lavoro da fare supera quello già fatto. Dall’altra parte vi sono i ricchi, che pur essendo in minoranza sono insaziabili nella continua ricerca di quei lussi e beni, per cui la maggioranza sopra citata deve lavorare instancabilmente.
Fatta questa prima suddivisione, i lavoratori vengono poi catalogati: c’è chi ha delle ricchezze, le investe e realizza grandi guadagni con poca fatica; mentre i contadini devono faticare per vivere e la stessa cosa vale per gli operai impegnati in lavori pesanti, ma pagati poco. Non manca neppure una categoria di lavoratori un po’ anomali: quelli nemici del “lavoro onesto“, dai ladri ai ciarlatani, pronti ad imbrogliare il prossimo e ad arraffare porzioni del benessere generale.
Tuttavia nella sua analisi penetrante Mandeville mette in evidenza che la categoria dei lavoratori onesti e quella dei disonesti, anche se distinte, possono presentare dei punti in comune: non vi è infatti commercio, professione, mestiere che non abbia nel suo fondo una dose di inganno. Quante truffe, più o meno evidenti, si nascondono nelle attività di rispettabili professionisti o di alti funzionari! Gli avvocati si danno da fare per “suscitare liti e trovare cavilli”e così prolungano le cause giudiziarie e… aumentano i loro emolumenti. I medici tengono in considerazione “la fama e la ricchezza più della salute malferma del paziente”. Proseguendo su questa strada, nel poemetto Mandeville smaschera quanto vi è di inconfessabile nei comportamenti di sacerdoti, ufficiali, ministri del re; poi conclude dicendo che nell’alveare l’imbroglio è così diffuso che si estende a un po’ tutti i gruppi sociali.

“Infatti non c’era ape che non guadagnasse
non dico più di quanto dovesse,
ma più di quanto osasse far sapere agli altri
che pagavano; come i nostri giocatori,
che, anche se non barano, non dicono mai
di fronte ai perdenti quanto hanno vinto.”

I PARADOSSI
Nelle strofe successive l’abilità argomentativa dello scrittore arriva a porre la questione del tornaconto personale dei singoli e della prosperità generale della società sotto una prospettiva del tutto inconsueta.

“Così ogni parte era piena di vizio,
ma il tutto era un paradiso.
……………………………
Tali erano le benedizioni di quello stato:
i loro delitti contribuivano a farle - fare le api - grandi;
e la virtù, che dalla politica
aveva appreso mille trucchi astuti,
grazie alla sua felice influenza,
aveva stretto amicizia con il vizio; e da allora
anche il peggiore dell’intera moltitudine
faceva qualcosa per il bene comune.

Questa era l’arte politica, che reggeva
un insieme di cui ogni parte si lamentava.
Essa, come l’armonia della musica,
faceva accordare nel complesso le dissonanze.
Le parti direttamente opposte
si aiutavano a vicenda, come per dispetto;
e la temperanza e la sobrietà
servivano l’ubriachezza e la ghiottoneria.
La radice del male, l’avarizia,
vizio dannato, meschino pernicioso,
era schiava della prodigalità,
il nobile peccato; mentre il lusso
dava lavoro ad un milione di poveri
e l’odioso orgoglio ad una altro milione.
Perfino l’invidia e la vanità
servivano l’industria.
La loro follia favorita, la volubilità
nel nutrirsi, nell’arredamento e nel vestire,
questo vizio strano e ridicolo, era divenuta
la ruota che faceva muovere il commercio.
…………………………….........................

Così il vizio nutriva l’ingegnosità,
che insieme con il tempo e con l’industria
aveva portato le comodità della vita,
i suoi reali piaceri, agi e conforti,
ad una tale altezza che i più poveri
vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi;
e nulla si sarebbe potuto aggiungere.”

Queste pagine ci trascinano in un originale ragionamento fatto di paradossi, presentati con uno stile brillante e di straordinaria efficacia. Vengono abbinati il vizio ed il paradiso, la virtù ed il vizio, l’armonia e la dissonanza, la sobrietà e la ghiottoneria, l’avarizia e la generosità, la vanità e l’operosità.
Noi, leggendo, rimaniamo un po’ stupiti e un po’ ammirati; alcuni potrebbero indignarsi perché giudicherebbero i paradossi di un cinismo inaccettabile.
Secondo una certa versione giunta fino a noi, pare che Mandeville abbia avuto necessità di arrotondare i suoi guadagni di medico e per questo abbia accettato di scrivere un poemetto in difesa degli alcolici, su commissione di padroni di distillerie. Questo lavoro commissionato può essere stato uno spunto per le osservazioni paradossali della favola, in cui si afferma che in buona sostanza i lussi ed i vizi - forse compreso il bere! - contribuiscono a creare una diffusa ricchezza.
La favola viene pubblicata per la prima volta nel 1705, ha un tale successo da essere più volte ripubblicata fino al 1729. Le ultime edizioni contengono anche delle note e dei saggi, con cui l’autore risponde alle numerose critiche ricevute.
L’opera ha l’aspetto di una favola di animali e ha uno stile tutt’altro che accademico, ma è in realtà un vero e proprio studio di sociologia ed economia. Alcuni vi vedono le premesse della teoria del liberismo, che nei secoli successivi sarà il pensiero economico dominante nei paesi industrializzati, come Inghilterra, Francia, Stati Uniti. E ancora oggi si parla di liberismo e neoliberismo.
Con Mandeville, e non solo con lui, nel Settecento sorge una nuova visione della prosperità sociale: si opera un distacco netto dalla morale di derivazione religiosa, sia essa cattolica o calvinista. Se pensiamo che nel cristianesimo cattolico il denaro è disprezzato come “sterco del diavolo”, oppure che nel cristianesimo calvinista si esalta il lavoro, che porta ricchezza, e nello stesso tempo si condannano il lusso e lo spreco, comprendiamo quanto sia rivoluzionaria questa favola. E’ una specie di anti-utopia che critica i sogni della religione e della morale, le quali vorrebbero tutte società di uomini puri e virtuosi.
Alla prova dei fatti la realtà umana è ben diversa e sembra che nelle contraddizioni concrete non bisogni separare nettamente il termine positivo da quello negativo, la virtù dal vizio, ma occorra accettare un complicato equilibrio, anche se difficile e precario, fra gli opposti. Non per nulla in uno dei tanti titoli dati al poemetto si legge “la Favola delle Api, ovvero Vizi Privati, Pubblici Benefici“.
Si capisce così perché il saggio in questione sia stato definito un punto di partenza del pensiero liberista, in particolare del principio liberista noto come “laissez-faire”, cioè lascia fare. In economia è bene far valere la libertà individuale contro i pesanti interventi e controlli di una autorità statale o di altro tipo, perché gli interessi personali non sono necessariamente dannosi all’interesse generale. Mandeville è convinto che il benessere di tutti abbia bisogno dell’egoismo di ognuno di noi, poiché gli egoismi individuali “si aiutano a vicenda, come per dispetto”.
Questo argomento ci rimanda ad Adam Smith, il fondatore della scienza economica, che nella sua Ricchezza delle Nazioni afferma che non per “benevolenza“ verso il prossimo il macellaio vende la carne, ma per farsi pagare e conseguire il suo guadagno. Sta di fatto che uno, se ha fame e vuole nutrirsi di carne, può esaudire il suo desiderio proprio perché c’è chi macella e vende per tornaconto personale.
In conclusione Mandeville scrive senza ipocrisie e falsi moralismi e getta le basi di una osservazione precisa dei meccanismi economici, accettando verità che moralisti e benpensanti respingono con indignazione.


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