Il lavoro del contadino

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Giuseppe Pelizza da Volpedo, studio di figura maschile, matita e carboncino su carta beige incollata su tela - 158,5 x 95 cm -, dalla Biblioteca Civica di Alessandria. Studio preparatorio per la grande tela “Il Quarto Stato”.


ENCOMIO DEL CONTADINO
Siamo in un paesino italiano dell’Ottocento: un bambino, di nome Giannetto, apprende l’importanza del duro lavoro del contadino attraverso le parole del suo sindaco, che tesse un vero e proprio elogio di chi lavora i campi.

“ Tu vedi, o Giannetto, come il contadino semini, coltivi, raccolga, stando esposto al vento, al freddo, all’ardore del sole e qualche volta alla pioggia ancora. Tu vedi come ei (egli) si affatichi, sudi, stenti per vivere esso e procacciare il nutrimento a noi. I contadini dabbene meriterebbero perciò maggior conto di quello che si suol farne. E’ nostro dovere mostrar loro benevolenza e stima, quantunque non vestano abiti costosi, né siano così aggraziati, puliti e colti come i cittadini. Se talvolta sembrano rozzi, gli è solo perché non ricevettero il beneficio dell’educazione. Quant’è dunque vantaggiosa l’educazione! D’esserne privi quei poveretti non hanno colpa, perché dovettero mettersi al lavoro tosto che furono capaci, ossia all’età di sei o sette anni. Si meriterebbe invece amarissimi rimproveri quel fanciullo che, avendo il comodo de’ maestri e de’ libri, non ne approfittasse per dirozzare l’ingegno, per diventare garbato e utile a sé ed agli altri.
Ma se non sempre gli uomini sono giusti verso i contadini, ricusando loro istruzione, stima e ricchezze, ben li rimunera (remunera) il Signore misericordioso; il quale ai villici concede costumi semplici, cuore ed animo tranquillo, sanità e robustezza di corpo”.

Con questo encomio, pieno di stima ma anche di amare riflessioni, ci troviamo in un’Italia lontana, svanita da decenni. E’ l’Italia ottocentesca, che cerchiamo di ricostruire leggendo brani del libro, da cui è tratto l’encomio. Si tratta di un testo di scuola elementare, intitolato “Giannetto”, scritto da Luigi Alessandro Parravicini - noto pedagogo ed educatore di quelle regioni che nel primo Ottocento costituivano il Regno del Lombardo-Veneto e si trovavano sotto il governo dall’Austria –.
Il manuale fu un grande successo editoriale e servì per l’educazione di base di molti ragazzini italiani. Infatti Giannetto è un bambino curioso, che non perde occasione di istruirsi con l’aiuto di tutti quanti ruotano attorno a lui - il sindaco del villaggio, il farmacista, il parroco, uno zio, i genitori, ecc… –. Rappresenta il collegamento fra tante nozioni di anatomia, geografia, scienze naturali e storia - oltre a numerosissimi insegnamenti morali -, che costituiscono i saperi di base della scuola primaria dell’Ottocento.
Interessante, anche se ovviamente limitata alle conoscenze più semplici, è la parte dedicata ai mestieri, dove una serie di lezioni offre un bel quadro sulla vita quotidiana dell’Italia di allora.

LEZIONE SUI MESTIERI DELL’AGRICOLTURA
Giannetto ed il sindaco del villaggio, che già abbiamo conosciuti, sono seduti sul bordo di un campo e osservano un contadino che lavora.
“ Videro un contadino che andava rompendo la terra per ridurla atta ( adatta, predisposta ) a ricevere la semenza, di poi spargeva qua granelli di segala o di frumento, là d’orzo o d’altro”
Giannetto subito vuol sapere tutto su queste operazioni ed il sindaco così risponde: “ Dai granelli di semente che vedi gettare nascono verdi germogli, i quali crescono e diventano gambi. Dai gambi del frumento e della segala escono le spighe, da quelli del grano turco le pannocchie. Le spighe e le pannocchie si sgranano; per tal modo abbiamo le biade e i grani”.

L’ANNATA DEL CONTADINO
Continua poi il sindaco.
“Il contadino nei mesi di NOVEMBRE e DICEMBRE e in PRIMAVERA ara la terra, ossia la rompe con l’aratro. L’aratro è guarnito di una punta di ferro detta vomere, e vien tirato da bovi o da cavalli. Nei terreni dove sono state seminate le fave e gli altri legumi il bifolco sotterra coll’aratro le loro tenere pianticelle, che servono a renderli più fertili; ciò si chiama sovescio. Con lo stesso fine sparge per i campi il letame o concio, e così li prepara a ricevere la semente: ei (egli) getta prima quella del grano, della segala, dell’orzo, e più tardi semina il formentone o grano turco, i fagioli, il lino, la canapa, la saggina (pianta utile per foraggio, mangime, produzione di scope).
I terreni vogliono essere vangati piuttosto che arati. – La vanga ha la punta d’oro – dice il contadino robusto, che l’affonda bene nel terreno, poi sollevandola, rivolta le zolle, sperando un buon compenso alle sue fatiche.
In DICEMBRE il contadino raccoglie le ulive e le porta al frantoio, ove sotto una macina di pietra vengono stritolate, per essere poi messe in certe gabbie sotto il torchio, nel quale vengono spremute, onde ne esca l’olio.
FEBBRAIO è il tempo in cui si piantano le viti e gli ulivi; allora si potano le piante, vale a dire se ne tagliano alcuni rami, affinché i succhi e la forza della vegetazione si raccolgano nelle branche maestre ( nei rami principali ), ed i frutti vengano più grossi, belli e sugosi.
Nell’APRILE si tosano le pecore; si fanno gli innesti, cioè si congiunge, per mezzo d’incisioni e legature, un ramicello tolto da una pianta che dà buoni frutti al tronco di un’altra: da questa unione derivano rami che portano frutte squisitissime ( frutti squisitissimi ).
Ai primi di MAGGIO incomincia la custodia dei bachi da seta, che esigono molta cura e diligenza, acciochè diano un buon raccolto (il filo di seta). Si segano ( tagliano ) quindi colla falce i prati; e quando il fieno è asciutto, si ripone negli stanzoni destinati a conservarlo ( i fienili). Talvolta accade che il fieno, riposto prima d’essere ben secco al sole, fermenti e prenda fuoco da sé ( s’incendi per autocombustione ). Conviene dunque andar molto cauti nel metterlo nei fienili al coperto ed assicurarsi che sia seccato a dovere.
Nei mesi di GIUGNO e LUGLIO i contadini sono in gran faccende per la mietitura del grano. Essi raccolgono i gambi delle spighe in manipoli, e con questi compongono covoni e fasci; li portano nell’aia, che è uno spianato presso le loro casupole, ed ivi con dei correggiati (strumenti con due grossi bastoni uniti da una striscia di cuoio) li battono per farne saltar fuori i chicchi. In qualche luogo ciò si fa per mezzo dei cavalli che vi trottano sopra; in qualche altro si usa di battere i covoni ad uno alla volta sopra una tavola di legno. I contadini poi colla paglia fanno quel monte a cupola che si chiama pagliaio. Per ripulire i granelli dalle bucce, ossia dalla pula, li gettano in aria al vento con una pala; a questo modo i granelli vengono separati dalla pula leggera che vola via. Quando sono mondi e puliti si ripongono nel granaio.
Nell’AGOSTO e nel SETTEMBRE si raccoglie il formentone e si svelle la canapa. Questa vien messa nell’acqua a macerarsi, affinché diventi più fragile; poi la si leva dall’acqua e, quando è ben asciutta, si maciulla, cioè se ne dirompono gli steli con una macchina, che ne discacci tutta la parte legnosa e vi lascia solamente ciò che è buono a filarsi. Lo stesso si fa per il lino. Nel SETTEMBRE si tosano un’altra volta le pecore (operazione svolta una prima volta ad aprile ).
In OTTOBRE le famiglie de’ contadini si spargono liete per le vigne a vendemmiare. Essi ripongono i grappoli d’uva in bigoncie ( contenitori di legno); li pigiano, li versano ne’ tini, ove l’uva fermenta, si riscalda e pare che bolla. Mercè (tramite) tale fermentazione il mosto diventa vino, il quale scola da un buco fatto nella parte inferiore del tino. Devono avvertire i contadini di non trattenersi troppo lungamente nelle vinaie e molto meno dentro ai tini quando l’uva o il mosto fermenta; perché si forma un’aria così malsana che potrebbe produrre in chi l’aspira svenimenti ed anche la morte. La stessa cautela è necessaria per chi si cala nelle buche sotterranee in cui si serba il grano. Nell’ottobre si toglie pure il mele (miele) dagli alveari, ove lo hanno deposto le api.
Il contadino usa della zappa, colla quale rompe il terreno; usa dell’erpice tirato dai buoi, con cui lo netta (pulisce) delle erbe nocive; usa della barella per trasportare la terra.”

TANTA FATICA, BENESSERE POCO
Che cosa vediamo dal brano appena letto? Un paese economicamente arretrato in confronto ai vicini europei. Nell’Ottocento ancora la grande maggioranza degli italiani lavora nei campi, mentre gli inglesi, i francesi, e subito dopo i tedeschi, sono già largamente impegnati in attività industriali e solo in parte in quelle agricole.
Il ritardo economico italiano è storicamente la conseguenza di secoli di decadenza attraversati dall’Italia, dalla metà del ‘500 fino ai primi decenni dell’Ottocento. Per tre secoli l’Italia non ebbe neppure un’autonomia politica, ma come una colonia passò sotto varie dominazioni, da quella spagnola a quella austriaca. Nell’Ottocento era ancora un paese diviso in tanti staterelli e dovette passare attraverso la difficile fase del Risorgimento, per diventare uno stato unitario come gli altri popoli europei. L’Italia si trovò a realizzare contemporaneamente la sua formazione politica ed il suo sviluppo economico: solo con la seconda metà del ‘900 entrò a pieno titolo nei paesi industrializzati.
Succede così che oggi noi, italiani del XXI secolo, troviamo il mondo del Giannetto molto lontano. Certi termini del passato agricolo - sovescio, concio, bigoncia, ecc…- ci appaiono persino un po’ misteriosi.
Il contadino di Giannetto non solo è contadino, ma è anche un agricoltore fermo a tecniche del passato. Usa strumenti antichi, arretrati rispetto alla moderna e razionale agricoltura di altri paesi, specie di quelli anglosassoni.
Nell’ Italia ottocentesca il principio di “più produttività, meno lavoro manuale” è seguito soltanto in qualche grande e avanzata azienda agricola della Lombardia, della Toscana, del Piemonte. Il piccolo coltivatore è ancora legato al proverbio: “La vanga ha la punta d’oro”. Questo saggio motto ricorda quanto un terreno ben lavorato – ben sminuzzato, ben girato e rigirato – sia fondamentale per la crescita delle sementi, ma nello stesso tempo condanna il contadino, necessariamente robusto, ad un pesante lavoro quotidiano, svolto in ogni condizione: “al freddo, al vento, all’ardore del sole”. Ma a tanto impegno corrisponde un tenore di vita soddisfacente ed adeguato alla fatica profusa? Nell’Italia dell’Ottocento: no.
In campagna prevalgono gli strumenti a mano – vanga, zappa, pala, falce, falcetto… - che richiedono molta manodopera e costringono a lavorare per lunghe ore, sui campi o nelle aie, in condizioni anche poco salutari – pensiamo solo alla battitura e pulitura dei chicchi di grano ed alla pula dei granelli che vola nell’aria satura di polvere -. Si va al lavoro prestissimo, durante la giornata ed anche nella vita. Come abbiamo visto, già a sei o sette anni si diventa lavoratori attivi e per conseguenza, non andando a scuola, si resta analfabeti.
Questa situazione, poi, tanto per l’agricoltura quanto per il diffuso analfabetismo, nell’Italia meridionale è ancora più preoccupante.

IL GIANNETTO
Non per nulla è importante spendere qualche parola per il Giannetto: questo manuale studiato appositamente per i bambini italiani, che fu concepito per partecipare al concorso indetto, nel 1833, dalla Società Fiorentina dell’Istruzione Elementare. Così diceva il bando: “Lo scopo della Società è quello di diffondere l’istruzione elementare specialmente nella bassa classe del popolo; i fanciulli debbono approfittare delle letture dai sei ai dodici anni.” Questo determinò la richiesta di un buon testo di scuola elementare e si raccomandò ai concorrenti “la semplicità dello stile, la chiarezza e la purità delle lingua”.
Nella delibera del 23 dicembre 1836 la Società dichiarò vincitore del concorso l’autore del manoscritto intitolato GIANNETTO.


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