Il buon pane dell’Ottocento

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Ines Grande: “Padre Nostro”, ceramica policroma, cm 29 x 42,
produzione delle Manifatture Lenci di Torino, anno 1929.


“Il grano diventa un cibo gradito e comodo all’uomo quando è ridotto in farina, quindi in pane o in paste”.

Questo leggiamo in un manuale di scuola elementare, scritto per i ragazzini italiani dell’Ottocento e intitolato “Giannetto”.
Giannetto, bambino diligente, è un po’ il filo conduttore scelto da Luigi Alessandro Parravicini per presentare interessanti descrizioni di noti e diffusi mestieri. Il Parravicini fu un educatore di quel Lombardo –Veneto, che solo nel 1866 entrò a far parte quasi integralmente dell’allora neonato Regno d’Italia.
Il manuale “Giannetto” riscosse un grande successo nel campo dell’educazione per l’infanzia.
Leggiamo come con tratti brevi, ma efficaci, il Parravicini spiegò ai bambini i lavori del mugnaio e del fornaio in una Italia, dove la base dell’alimentazione di tutti, ricchi e soprattutto poveri, era il pane.
La famiglia del nostro Giannetto fu presentata come una sorta di modello per parlare dell’Italia ottocentesca. In verità si trattava di una famiglia abbastanza fortunata: laboriosa, modestamente benestante e attenta a far quadrare con oculatezza il bilancio domestico.
Per procacciare il cibo quotidiano che cosa faceva l’accorto capofamiglia? Vediamo il testo:“Il padre di Giannetto vendè una porzione del grano che aveva raccolto, e mandò l’altra al mugnaio acciochè (affinché) la macinasse con il suo mulino”.

IL MULINO
Segue la descrizione del mulino.

“Fra noi i MULINI DEL GRANO sono mossi dall’ACQUA. Una delle parti principali del mulino è una GRAN RUOTA, in cui, invece di razzi (raggi), sono fisse tante asserelle (piccole assi di legno) od ali larghe in cima come le pale dei remi; pel suo mezzo passa e si incastra in essa una lunga trave (robusto palo portante), che si chiama l’ALBERO. L’albero poggia in colli di ferro e in cardini fissi né muriccioli del FOSSO, sovra cui pende la ruota, e gira insieme con essa.
Un filo d’acqua o un ruscello che venga dal pendio è ristretto in DOCCE (condotte o canaletti molto inclinati) e guidato al mulino. Ivi giunto, si precipita, come una cascatella, sulle ali della ruota, e la fa girare insieme coll’albero. Ciò accade fuor dal mulino.
Vediamo ora che avviene di dentro. L’albero passa pel muro forato del mulino e mette capo alla stanza dove sono le MACINE. Ivi s’innesta una RUOTA che è tutta all’intorno armata con punte di ferro che sporgono infuori come i denti. E questa ruota e l’altra e la trave dell’albero sono così ben connesse fra loro che, girando la ruota esterna, gira pure dentro al mulino la ruota dentata (ossia quella armata di punte di ferro sporgenti come denti). Questa è fatta in modo ch’entra coi suoi denti in un ROCCHETTO messo in piedi (pezzo cilindrico con denti che ingranano nei denti della già menzionata ruota dentata), l’urta forte e lo fa girare. Al rocchetto è unita una GROSSA STANGA di legno (robusto palo), nella quale è impernata (fissata saldamente e in modo solidale alla grossa stanga di legno, come se fosse su un perno o punto d’appoggio) la MACINA di pietra viva (massiccia pietra circolare piatta nella parte inferiore e convessa in quella superiore).
L’acqua cadente fa girare la ruota di fuori; perciò gira la ruota di dentro, gira il rocchetto e gira la macina. Fra la macina e una PIETRA a lei sottoposta ( infatti si parla anche di macine, ossia di due pietre poste l’una sull’altra) cadono a poco a poco dalla TRAMOGGIA ( cassetta quadrangolare che si restringe nella parte inferiore e contiene i chicchi del grano da macinare) i granelli che vengono tra la macina e la pietra schiacciati e polverizzati, cioè ridotti in crusca mista a farina”.

Eccoci di fronte ad un tradizionale mulino idraulico, macchinario fondamentale nell’Italia ottocentesca e pre-industriale. Il mulino di Giannetto ci trasporta, però, ben oltre l’Ottocento, e ci immette in un fatto storico di lungo, anzi lunghissimo periodo. La tecnologia dei mulini risale ad alcuni secoli prima di Cristo e, nonostante inevitabili migliorie, la struttura fondamentale di una ruota motrice, collegata ad un sistema di trasmissione e da questo ad una macchina operatrice – le macine -, corre lungo la storia attraversando circa più di 2000 anni.
Grazie al lavoro delle macine, una volta ottenuta la farina, si passa..........

DAL MULINO AL FORNO
“ Il mugnaio poiché ebbe macinato il grano avuto dal padre di Giannetto lo portò al panettiere. Costui lo versò nel BURATTO (grosso setaccio). Nel buratto c’è il FRULLONE, cioè una cassetta lunga che ha degli stacci (parti traforate per separare le diverse componenti dei chicchi polverizzati) per parete: la si fa girare per mezzo di un manubrio; e scuotendo così il grano macinato, separa in breve tempo la farina dalla crusca o semola, la quale non è altro se non la buccia infranta del grano polverizzato.
La sera innanzi al dì che il fornaio voleva fare il pane, mise una porzione di quella farina nella MADIA (specie di cassa usata per preparare la pasta di pane, per lasciarla lievitare e poi lavorarla e conservarla) unitamente al lievito e la bagnò con un po’ d’acqua.
Qui è da sapersi che il LIEVITO è un pezzo di pasta (ovviamente pasta di pane) che si lascia inacidire da una infornata all’altra, e che serve a promuovere nella pasta quella fermentazione che è necessaria a rendere il pane soffice e di un gusto aggradevole (gradevole). Se il lievito è troppo, il pane riesce agro (aspro, acido).
Al domani il lievito aveva alquanto alzato la farina e sparso per la stanza un grato odore vinoso. Allora il fornaio cominciò a stemperare il lievito; poi colle sue robuste braccia impastò quella mescolanza fino a che la farina intrisa divenne un po’ soda; indi ruppe la pasta e ne buttò con forza i pezzi contro le pareti della madia. Fece egli così acciocché la si empisse d’aria e il pane cocendo venisse bucherellato e leggero.
Ridotta la pasta alla convenevole (adatta) consistenza, i giovani del fornaio la riposero in CALDANA (scompartimento molto caldo sopra la volta del forno), sotto una coperta, ove la pasta fermentò di nuovo. Levatala poi di là sotto, la tagliarono in pezzi più o meno grossi, cui diedero la forma di pane rotondo, di picce (due panini attaccati a coppia), di fili di pane e di panettini; e colla PALA gl’introdussero nel FORNO, ben ripulito dalla cenere. Il capo fornaio vigilava attentamente acciocché ognuna di queste operazioni fosse eseguita a dovere e perché il forno venisse riscaldato né più né meno: il che non è tanto facile ad indovinarsi.
La pasta chiusa nel forno si sollevò, s’indurì e fece la crosta. Il fornaio, che aveva sempre l’occhio al pane, colse il punto della sua giusta cottura, e colla pala tirò fuori ad uno ad uno i pani. Questi non si devono mangiare se non dopo che divennero freddi.
Il pane è la sussistenza del povero; anzi nessuno fra noi vive senza mangiare pane ogni dì; quindi i mestieri del mugnaio e del panettiere sono di prima necessità e spesso arricchiscono quelli che gli (li) esercitano in grande e onestamente.”

Buono questo pane lievitato in modo naturale, non prodotto industrialmente e neppure toccato da additivi chimici!
Ma, anche se più sano e fragrante del pane attuale, era proprio il pane di tutti?
Nell’Ottocento i veri poveri potevano quotidianamente cibarsi di buon pane bianco, preparato con fior di farina? Ovviamente: no.
Per sfamare tutte le bocche di una famiglia la laboriosità e la creatività, sia del capofamiglia sia della massaia, non cessarono mai di praticare colture alternative al frumento e di elaborare famosi piatti, poveri ma “aggradevoli”- come direbbe il Parravicini -. Pensiamo al pane nero, alle varie polente, agli gnocchi, a tante minestre che garantirono la sopravvivenza di tanta gente.


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