Il cibo e l´economia di campagna

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Giuseppe De Nittis – 1846-1884 -, “La Masseria”


L’Italia dell’Ottocento era un paese abitato in maggioranza da contadini e per di più da contadini non ricchi, che faticavano a mantenere la famiglia. Tuttavia non mancava, né nei padri né nelle madri, un sano spirito di iniziativa, con cui venivano ampiamente sfruttate le modeste risorse offerte da una cascina – o fattoria o masseria -. La famiglia contadina era organizzata sia per guadagnare denaro contante con la vendita dei prodotti agricoli, sia per usare tutto quanto la campagna offrisse per il cibo, il vestiario e la casa.
A tal proposito interessanti testimonianze sono reperibili nelle pagine di un vecchio manuale di scuola elementare. Il “Giannetto” scritto dall’educatore Luigi Alessandro Parravicini che nel 1837, come si legge nella intestazione, “ottenne il premio promesso al più bel libro di lettura ad uso de’ fanciulli e del popolo”. Nel testo Giannetto è il modello del buon scolaro: un ragazzino sveglio che fa tante domande agli adulti, tutti ben disponibili a soddisfare le sue curiosità, e cerca di imparare anche per esperienza diretta.
Cogliamo quindi un’interessante conversazione che si svolge fra Giannetto, il sindaco del paese di Giannetto ed un contadino, detto “il capoccia” cioè il capo famiglia, impegnato attivamente a raccogliere il grano e a fare da supervisore a quanti lavorano sotto la sua guida.
Siamo in estate: tempo di mietere il frumento.
Giannetto, desideroso di vedere direttamente le operazioni di mietitura, si rivolge al sindaco del suo paesetto, che è proprietario di un terreno coltivato a grano.

“L’estate s’inoltrava, e i contadini erano intenti a mietere o a battere il grano. Giannetto voleva vedere come si raccolgono i grani, e pregò il sindaco di condurlo ad una sua terra, poche miglia distante dal villaggio. Ottenuta licenza dai genitori, s’intese con il sindaco di andarvi a piedi, partendo all’alba sul fresco. Così fecero.
Non è a dire come fosse contento il fanciullo nel trovarsi in mezzo a quei buoni contadini che lavoravano indefessamente (quasi senza stancarsi), e nell’affaccendarsi anch’esso ad ammontare covoni… dava impaccio più che altro.
Giunto il sole al pomeriggio, il capoccia, volendo riposare e prendere qualche cibo, si assise vicino al sindaco e a Giannetto. Allora questi si misero a discorrere famigliarmente con lui intorno alle erbe e alle piante che si coltivano nei campi”.

ERBE E PIANTE COLTIVATE.
Forte delle sua grande esperienza il capoccia-contadino, che probabilmente non sa né leggere né scrivere – tanto era diffuso l’analfabetismo nell’Italia ottocentesca -, si dilunga in un’ampia lezione che va dalla botanica alla merceologia.
FRUMENTO
Come primo argomento, si parla del frumento o grano che, trasformato in farina e poi in pane, è stato sempre il cereale più consumato dalle popolazioni occidentali. Si apprende che la parte migliore del frumento, ossia il fior di farina usato per il pane bianco, nell’Italia dell’Ottocento era destinata per lo più ai benestanti. In campagna il grano era prodotto soprattutto per la vendita ai cittadini, non per il cibo dei contadini! Proprio il consumo quotidiano di pane, da parte di poteva acquistarlo, dava un reddito ai contadini.

“Incominciò il contadino dal mostrare i granelli del frumento o grano, e disse che ognuno di quelli ben coltivato producesse dieci, dodici e più semi da porre in granaio. – Colla raccolta del frumento, soggiunse, noi poveri villani diamo da mangiare ai cittadini. E’ vero che ne caviamo anche noi de’ bei denari, quando il male della volpe non lo annerisce, quando lo sarchiamo a dovere, ossia quando lo nettiamo (puliamo) da tutte le cattive erbe che ne circondano i gambi. L’anno scorso, vedete, forse perché non bagnai i semi nell’acqua calcinata, o perché la stagione fu piovosa, non ebbi un buon raccolto. Oltre a ciò, perché non lo nettammo bene, si è introdotto nelle porche (parti seminate fra solco e solco) il loglio o la zizzania, i cui semi sono di un colore nero rossastro. Con gran pazienza bisognò cernere (separare) tutta quella erba malefica da ogni covone, poi separare dal frumento i semi del loglio con appositi crivelli (setacci). Uso tali diligenze (precauzioni), perché se alcuno mangiasse pane o altre vivande, la cui farina fosse mescolata a quella del loglio, il poveretto patirebbe vertigini, vomiti, vaniloqui, deliri, e arrischierebbe anche la vita.
Abbiamo diverse qualità di grano, come il grano gentile, il grano duro, il grano rosso. Vi è il grano detto marzolo, perché si semina nel mese di marzo, e molto fitto, coll’unica mira di raccoglierne la paglia, i cui steli sottilissimi e assai pieghevoli servono ad intrecciare i rinomati cappelli di paglia di Firenze - ”.

In passato la coltivazione del frumento era la ricchezza di chi lavorava i campi: un cattivo raccolto poteva costituire un’annata di stenti per un’intera famiglia. Per questo era necessaria la massima cura nelle varie operazioni agricole, senza tralasciare poi che pesava sempre sui risultati finali un fattore non controllabile: il tempo, in certi anni troppo piovoso, in altri troppo secco o altro ancora.
Per ottenere da un campo un rendimento soddisfacente – il capoccia parla di 10 o 12 chicchi ottenuti da ogni granello lavorato –bisognava iniziare bene fin dalla semina. Le sementi dovevano essere sane, non ammuffite o aggredite da germi, come il mal della volpe. Il contadino dell’Ottocento ricorreva all’ “incalcinamento”: tecnica di conservazione che consisteva nel lavare i grani, messi da parte per la semina, in acqua mescolata a polvere di calce. Inoltre, in mancanza di diserbanti chimici, lo stesso contadino doveva dedicare molto del suo tempo alla sarchiatura: puliva e ripuliva il campo di grano da tutte le erbe infestanti. Nel testo è ricordata la più famosa delle erbe cattive: la zizzania o il loglio, che tante preoccupazione dava all’agricoltore. Se infatti i semi rossastri del loglio venivano macinati insieme con quelli del frumento, si otteneva una farina con proprietà allucinogene, già nota in epoche lontanissime. Molto prima dell’Ottocento si parlava di un pane cattivo e scadente, detto “pane alloiato”, che fornai senza scrupoli producevano con farine in cui mescolavano di tutto, anche la mala erba della zizzania.
Ovviamente il competente agricoltore del “Giannetto” usava tutte le “diligenze”per offrire un prodotto di qualità, che sul mercato poteva vendere bene.
Inoltre era possibile guadagnare i soliti, sempre ambiti e spesso scarsi, soldi contanti approfittando di tutte le varietà vegetali offerte dalla natura. Per esempio il brano ci parla di una particolare qualità di frumento, il “ marzolo”, da cui si ricavava una pregiata paglia, sottile ed elastica, che un agricoltore poteva vendere a piccole industrie, presenti nell’Italia dell’Ottocento: quelle dei famosi cappelli di paglia di Firenze. Così si compiva una proficua integrazione fra economia rurale ed economia urbana.
SEGALE E GRANO TURCO
Continua la lezione del nostro contadino, che sa tutto sulla vita di campagna.

“ - Il frumento è il migliore granello da macinarsi per fare il pane; ma il cibo di noi miseri contadini è questo (così dicendo mostrò un pane di segale e una fetta di polenta); e sì, ne ringrazio Iddio. La segale si adatta ai terreni più cattivi, e cresce come il frumento ancorché nell’annata scarseggi molto la pioggia. Mescolando la farina di segale alla farina di frumento s’impasta un pane sanissimo. Questa polenta poi è fatta colla farina di grano turco o formentone. Il grano turco consiste in granelli grossi a un di presso come un pisello ordinario; ve n’è del giallo, del bianco e del rosso: in Italia si coltiva soltanto il giallo e il rosso. Ogni gambo di gran turco porta due o tre pannocchie, incartocciate con foglie, che le riparano dell’umido -.”

Ecco il vero cibo quotidiano dei contadini: il pane nero e la polenta!
Da qui comprendiamo che l’espressione “il pane è il cibo dei poveri” è stata nell’Ottocento un modo di dire un po’ impreciso. Per mantenere la famiglia, il contadino ricorreva a cereali meno pregiati del frumento, che richiede fertilità del suolo e terreni di una certa estensione. In alternativa al grano coltivava la segale: un cereale robusto che si adatta anche al terreno arido e al tempo freddo e secco. Per questo il pane di segale, o pane nero - a volte anche secco –, non deve essere confuso con la morbida e bianca pagnotta che compariva sulle tavole dei signori!
Quanto alla polenta, soprattutto nelle aree montane, sappiamo bene che nell’Ottocento nutrì molta gente. La polenta si cucinava con la farina di granturco, cereale dal rendimento più alto del grano: a parità si estensione, un campo coltivato a granturco dava un raccolto più abbondante di un campo di frumento.
ORZO
Il capoccia presenta un altro cereale.

“ - Prima dell’inverno semino l’orzo. L’orzo si miete in giugno ed è la manna di noi contadini che ce lo mangiamo in aspettazione di altre raccolte, le quali maturano più tardi. Io vendo poi l’orzo ordinario a coloro che mischiandolo coi fiori de’ luppoli, lo fanno fermentare nei tini e ne fabbricano la birra. Vendo anche una quantità di orzo senza buccia agli speziali, che lo spacciano per farne decotti -.”

Quindi anche l’orzo contribuiva a incrementare i redditi agrari! Infatti poteva offrire ben due opportunità: dar da mangiare in certi periodi dell’anno e rendere un po’ di soldi – ovviamente non i “bei denari” forniti da una buona annata di frumento – con la vendita alle fabbriche di birra e ai farmacisti.
AVENA, SAGGINA E BIADE MINUTE
Il contadino è una inesauribile fonte di conoscenze e, quasi in cattedra, continua a spiegare.

“ - Di tanto in tanto semino altri grani, come a dire l’avena, che è eccellente per il foraggio dei cavalli; semino un po’ di saggina, che fa un granello scuro e si può mischiare col grano per farne il pane ordinario, come si conviene a noi poveretti. Le foglie della saggina e della sagginella servono a sternere (stendere, fare strati), adoperandole come letto al bestiame vaccino. Coi gambi della saggina si fanno le granate (le scope), colle quali scopiamo i pavimenti delle nostre case. Semino panìco e miglio, perché da queste biade minute si trae una buona farina; ovvero le si danno da mangiare al pollame, per ingrassarlo, ed agli uccelli. Semino grano saraceno, che dà farina nera, buona da cuocersi e mangiare -.”

Nei tempi andati ogni cascina era una piccola azienda, dove tante erano le necessità da soddisfare, per gli uomini e anche per gli animali. Servivano persino i cereali cosiddetti minori: avena, saggina, panico, miglio, grano saraceno.
L’avena era il tipico cibo per i cavalli che nella fattoria svolgevano vari ed utili lavori: dai trasporti alle operazioni di trebbiatura - in cui pestavano con gli zoccoli i fasci di grano estraendone i chicchi - .
La saggina, altro cereale minore, serviva sia per un pane povero, sia per preparare i giacigli dei bovini. Questi ultimi erano fondamentali nell’economia agricola: trainavano aratri e carri; con gli escrementi davano concime per i campi; da morti poi fornivano carne, cuoio e altro ancora. Nulla veniva sprecato! La stessa saggina veniva sfruttata fino ai gambi: questi ultimi erano la materia prima per produrre scope.
Nella fattoria si pensava a nutrire tutti, anche agli animali minori: dagli uccelli a quelli che razzolavano per l’aia come polli e galline. Per questo erano coltivavano miglio e panico.
Infine, in tempi in cui la fame era una realtà non remota, per avere un’occasione in più di sopravvivenza si produceva un’altra farina, nera ma buona come alimento: quella del grano saraceno.
RISO E PRODOTTI DI PALUDE
Le conoscenze del capoccia si estendono anche ad esperienze altrui. Entra nel discorso un contadino che pratica la cosiddetta “coltura irrigua”.

“ - Mio fratello, che abita là giù, in una terra paludosa, coltiva anche il riso, di cui si fa tanto uso nelle minestre, perché è un grano leggiero e sano. Egli raccoglie inoltre nella palude la stiancìa o sala; erba spontanea, ossia che nasce da per sé, e che è molto usata per fare stuoie, seggiole e vesti da fiasco. Se vedeste poi che begli stoini da finestre sanno fare le sue figliole coi giunchi! Egli guadagna pure vendendo le cannuccie di palude, con le quali si fanno spazzole buonissime a spolverare le mobilie e a pulire i pavimenti lucidi delle case. Sull’argine che costeggia il palude crescono molte canne, e spesso gliene vado a chiedere quando ne ho bisogno per sostenere e collegare con esse le viti, per farne stuoie, con cui si coprono le cèntine (arcuate travi di sostegno) di volte delle camere, per costruire graticci (telai usati per l’essicazioni di frutti o altro), arcolai, rocche (canne usate per filare) e simili cose; delle quali io lavoro a tempo avanzato, e che in capo all’anno recano qualche guadagno -.”

Il riso, anch’esso un cereale, in passato veniva prodotto e consumato in alcune regioni settentrionali. Ancora oggi, se dell’Italia del Sud è famosa la pasta, di quella del Nord è celebre il risotto. Il contadino del “Giannetto”, però, non si dilunga tanto sulle buone qualità alimentari del riso, quanto piuttosto sulle risorse secondarie che spontaneamente – e questo è molto importante, perché occorre lavorare di meno – offre l’ambiente palustre, di cui ha bisogno la risicoltura. In passato le piante di palude venivano distinte secondo la loro specifica utilità: le erbe servivano per preparare oggetti, come stuoie e rivestimenti di sedie e fiaschi; le canne più sottili – le cannucce – diventavano merce da vendere alle industrie di spazzole; le canne più grandi erano usate per i prodotti più disparati: stuoie, sostegni, arcolai e altro ancora.
Il brano illustra bene come nell’Ottocento molte materie prime e molti beni di consumo provenissero direttamente dai campi. Questa era un’altra opportunità di guadagno, che i contadini sfruttavano diventando, soprattutto nei tempi morti dei mesi invernali in cui rallentavano i lavori dei campi, produttori di manufatti. Tutto per il benessere della famiglia, dove, come abbiamo visto, svolgevano un ruolo non secondario anche le donne – figlie e mogli dei contadini -.
LAVORO DELLE DONNE
Il capoccia, quindi, conclude la lezione ricordando doverosamente il contributo delle donne.

“- Le donne giovani e robuste delle nostre numerose famiglie ci aiutano al lavoro dei campi; le altre zappano gli orti e le terre presso i casolari. Ivi seminano le insalate, o quell’erbe e quelle radici che mangiam noi, o mandiamo a vendere alla città. Tali sono le rape, le carote, i ramolacci, il sedano, le cipolle, i porri, l’aglio, i pomodoro, gli sparagi, i cavoli, gli spinaci, la lattuga, l’indivia, il radicchio, i carciofi, i cetriuoli, le zucche, i cocomeri, le fragole, e i legumi. Sono legumi i fagioli, i piselli, le lenti, i ceci, le fave e tutte quelle piante erbacee che portano i loro frutti chiusi in baccelli. Negli orti sogliamo ancora seminare le pianticelle o erbe dette anice, finocchio, basilico, prezzemolo, ramerino, cerfoglio, comino, maggiorana, timo, peperoni e acetosa. Di alcune di queste pianticelle si adoperano i semi, d’altre le fogliuzze, e d’altre i frutti per dar maggior gusto e condimento alle vivande. Sono le droghe per così dire dei nostri paesi -“.

Da queste parole ben possiamo immaginare i periodi di superlavoro dell’agricoltura: pensiamo solo alla mietitura in cui tutti - donne, bambini e anziani - davano un aiuto agli uomini in piena attività! Tuttavia qui l’attenzione è rivolta al settore agricolo dell’ortaggio, che non solo arricchiva la dieta dei contadini, ma arricchiva anche di denaro contante. Le donne curavano gli orti pensando al mercato cittadino e all’occorrenza diventavano piccole commercianti in prima persona. La donna contadina dell’Ottocento - fra il marito, i figli numerosi e la campagna - lavorava, lavorava molto.
PATATE
E’ passato il tempo, il contadino ha parlato a lungo e, anche se molto avrebbe ancora da dire, termina la sua lezione, perché la mietitura è un’operazione che non permette lunghe pause.

“Giannetto sarebbe stato curioso di sapere molte altre cose dal contadino; ma questi che era un buon capo di casa, quando ebbe riposato e s’avvide che era tempo di rimettersi al lavoro, si alzò per tornare al campo, dando così buon esempio a’ suoi sottoposti; e il sindaco, accompagnandolo, gli disse: - Vi siete dimenticato, o galantuomo, di parlarci delle patate. Forse ne fate poco conto: pure io credo che fra noi converrebbe estenderne molto la coltivazione, perché le sono un cibo salubre, grato, e di raccolta sicura. Se i contadini coltivassero ogni anno un buon tratto di terra a patate, vi so dir io che essi non patirebbero mai la fame -. Così parlando egli disse addio al capoccia, e s’avviò con Giannetto verso casa”.

La battuta finale tocca al sindaco del villaggio che, da personaggio importante e preoccupato del benessere di tutto un paese, ritorna al solito problema: come non patire la fame? Per questo ricorda un alimento che in passato, fin dal lontano Settecento e anche un po’ prima, garantì la sopravvivenza a molta gente, soprattutto in paesi come l’Irlanda e la Germania: la patata. In Italia si diffuse più tardi e, come spiega il nostro sindaco, non smentì la sua utilità di pianta anti-fame, capace di dare un raccolto sufficiente per tutto l’anno, pur occupando un campo di dimensioni contenute.


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