Il buon pane dell´Ottocento ed altro

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“Il grano diventa un cibo gradito e comodo all’uomo quando è ridotto in farina, quindi in pane o in paste”.

Questo leggiamo nel “Giannetto” un manuale di scuola elementare, che nell’Ottocento riscosse grande successo e fu scritto da un pedagogo ed educatore del Lombardo-Veneto: Luigi Alessandro Parravicini.
Ma quale lavoro occorre per trasformare il grano in pane o pasta? A questo troviamo una risposta facile, anche perché pensata per dei ragazzini, proprio nel “Giannetto”, che fu concepito non solo per insegnare a leggere e scrivere o per impartire insegnamenti morali, ma anche per affrontare temi di altro tipo. Il Parravicini si distinse dagli educatori della sua epoca, per lo più impegnati in argomenti letterari ed etici, perché in forma semplice e chiara diede anche molto spazio alle materie tecnico-scientifiche. Come insegnante non solo possedeva una buona preparazione umanistico-letteraria, ma, poiché proveniva da studi di ingegneria ed architettura svolti a Pavia, era in grado di divulgare e rendere accessibili agli alunni nozioni di storia naturale, geografia, fisica e tanto altro.
Presentando quindi i mestieri collegati al pane, non si dilungò tanto su racconti edificanti o sui santi protettori di quanti producono un alimento così essenziale, ma presentò e descrisse anche le macchine e le tecniche di lavorazione di mugnai e panettieri.

IL MULINO AD ACQUA
Nel “Giannetto” si legge una chiara lezione sul mulino, dove si spiega come funzioni un macchinario, con tutte le sue parti componenti, usato per macinare il grano ed anche altri cereali.

“Fra noi i mulini del grano sono mossi dall’acqua. Una delle parti principali del mulino è una gran ruota, in cui, invece di razzi (raggi), sono fisse tante asserelle (piccole assi di legno) od ali larghe in cima come le pale dei remi; pel suo mezzo passa e si incastra in essa una lunga trave (robusto palo portante), che si chiama l’albero. L’albero poggia in colli di ferro e in cardini fissi né (nei) muriccioli del fosso, sovra cui pende la ruota, e gira insieme con essa.
Un filo d’acqua o un ruscello che venga dal pendio è ristretto in docce (condotte o canaletti molto inclinati) e guidato al mulino. Ivi giunto, si precipita, come una cascatella, sulle ali della ruota, e la fa girare insieme coll’albero. Ciò accade fuor dal mulino“.

Qui viene descritto il classico mulino idraulico a ruota verticale, di cui vi sono antichissime testimonianze: quella di Vitruvio, architetto nell’antica Roma - I secolo a.C. - .
Visto dall’esterno, il mulino si presenta come un modesto edificio che ha un muro confinante con un fosso, in cui viene deviata una certa quantità d’acqua da un vicino fiume o ruscello. La presenza del fosso è indispensabile, perché il mulino deve sfruttare l’energia dell’acqua per mettere in movimento una grande ruota esterna. In questa ruota s’incastra l’albero, cioè un robusto palo appoggiato su sostegni di ferro conficcati nel muro dello stesso mulino. Se si mette in moto la ruota, che è la macchina motrice, si muove insieme anche l’albero, che ha il compito di trasmettere il movimento. Per questo con docce o piccoli canali, messi in pendenza, l’acqua del fosso è costretta, precipitando, a colpire con forza la grande ruota e la mette in moto.
Passiamo ora alla parte interna del mulino.

“Vediamo ora che avviene di dentro. L’albero passa pel muro forato del mulino e mette capo alla stanza dove sono le macine. Ivi s’innesta una ruota che è tutta all’intorno armata con punte di ferro che sporgono infuori come i denti. E questa ruota e l’altra e la trave dell’albero sono così ben connesse fra loro che, girando la ruota esterna, gira pure dentro al mulino la ruota dentata (ossia quella armata di punte di ferro sporgenti come denti). Questa è fatta in modo ch’entra coi suoi denti in un rocchetto messo in piedi ( pezzo cilindrico verticale, con denti che ingranano nei denti della ruota dentata), l’urta forte e lo fa girare. Al rocchetto è unita una grossa stanga di legno (robusto palo), nella quale è impernata (fissata saldamente e in modo solidale alla grossa stanga di legno, come se fosse su un perno o punto d’appoggio) la macina di pietra viva (massiccia pietra circolare piatta nella parte inferiore e convessa in quella superiore).
L’acqua cadente fa girare la ruota di fuori; perciò gira la ruota di dentro, gira il rocchetto e gira la macina“.

Eccoci arrivati al punto! Il movimento della macina, pesante pietra che con moto rotatorio svolge la funzione di triturare o sminuzzare: ossia di macinare. La rotazione della macina avviene perché nel mulino, fin dall’antichità, sono stati connessi fra di loro degli ingranaggi che trasmettono il moto dalla ruota esterna fino alla macina, posta all’interno del mulino. Il Parravicini semplifica il procedimento sintetizzandolo in questi punti: la ruota esterna, che è in posizione verticale, si muove grazie all’energia idraulica; così trasmette il movimento all’albero che passa attraverso un buco, presente nel muro del mulino, e fa girare la ruota dentata interna; quest’ultima si muove sempre verticalmente, ma grazie ad un ingranaggio di rinvio, il rocchetto, imprime una rotazione orizzontale al palo conficcato nella macina, la quale si mette anch’essa in moto ed inizia a macinare. Si tratta di un ammirevole meccanismo, dove emerge l’ingegnosità di antichi tecnici che inventarono le ruote dentate. Queste ultime divennero componenti essenziali per la costruzione dei più diversi marchingegni e determinarono lo studio dei rotismi, cioè di quella grande varietà di ingranaggi costituiti proprio da ruote dentate grandi o piccole. Basti pensare ai complessi meccanismi degli orologi.
E finalmente ecco il lavoro della macina!

“Fra la macina e una pietra a lei sottoposta ( si parla anche di macine, ossia di due pietre poste l’una sull’altra) cadono a poco a poco dalla tramoggia ( cassetta quadrangolare che si restringe nella parte inferiore e contiene i chicchi del grano da macinare) i granelli che vengono tra la macina e la pietra schiacciati e polverizzati, cioè ridotti in crusca mista a farina”.

DAL MULINO AL FORNO
Il pane è un alimento basilare nella storia dell’umanità, consumato da molti popoli e da tempi molto antichi: i primi forni si possono far risalire a circa 2500 anni prima di Cristo. Leggiamo come il Parravicini ci presenta il lavoro del panettiere nell‘Italia dell‘Ottocento.

“ Il mugnaio poiché ebbe macinato il grano…, lo portò al panettiere. Costui lo versò nel buratto (grosso setaccio). Nel buratto c’è il frullone, cioè una cassetta lunga che ha degli stacci (parti traforate per separare le diverse componenti dei chicchi polverizzati) per parete: la si fa girare per mezzo di un manubrio; e scuotendo così il grano macinato, separa in breve tempo la farina dalla crusca o semola, la quale non è altro se non la buccia infranta del grano polverizzato“.

Per un buon pane bianco il panettiere dell’Ottocento doveva prima svolgere un importante lavoro di setacciatura: la farina del mugnaio, ancora mista a crusca, doveva essere selezionata e per questo passava attraverso vari setacci, fino a diventare fior di farina. Dopo la setacciatura si passava ovviamente all’impasto, alla lievitazione e infine alla cottura.

“La sera innanzi al dì che il fornaio voleva fare il pane, mise una porzione di quella farina nella madia (specie di cassa usata per preparare la pasta di pane, per lasciarla lievitare e poi lavorarla e conservarla) unitamente al lievito e la bagnò con un po’ d’acqua.
Qui è da sapersi che il lievito è un pezzo di pasta (ovviamente pasta di pane) che si lascia inacidire da una infornata all’altra, e che serve a promuovere nella pasta quella fermentazione che è necessaria a rendere il pane soffice e di un gusto aggradevole (gradevole). Se il lievito è troppo, il pane riesce agro (aspro, acido).
Al domani il lievito aveva alquanto alzato la farina e sparso per la stanza un grato odore vinoso. Allora il fornaio cominciò a stemperare il lievito; poi colle sue robuste braccia impastò quella mescolanza fino a che la farina intrisa divenne un po’ soda; indi ruppe la pasta e ne buttò con forza i pezzi contro le pareti della madia. Fece egli così acciocché (affinché) la si empisse d’aria e il pane cocendo venisse bucherellato e leggero“.

Qui, senza entrare in conoscenze scientifiche che i bambini non capirebbero, il Parravicini accenna a fenomeni biochimici, che riguardano la panificazione. Per una buona pasta di pane occorre mescolare la farina con un po’ d’acqua e poi aggiungere un ingrediente che non può mancare: il lievito. Nell’Ottocento era sconosciuto l’attuale lievito industriale; si usava un prodotto naturale che altro non era che un pezzo di pasta di pane diventata acida. Questo pezzo, non messo a cottura nel forno, era una sorta di ricettacolo di microrganismi: i saccaromiceti, gli utilissimi funghi promotori della fermentazione, che - allora come oggi - scindevano l‘amido contenuto nella farina producendo anidride carbonica. Con l’anidride carbonica la pasta si gonfiava di bolle di gas, diventando porosa e più digeribile: in breve lievitava.
Il panettiere doveva lavorare l’impasto a lungo e con molta energia; alla fine lo divideva in pezzi che sbatteva con forza nella madia: tutto perché si mescolassero in modo omogeneo particelle di farina, d’acqua e gas. La pasta, abbastanza soda e nello stesso tempo morbida ed elastica, sotto l’occhio vigile del capo fornaio poteva passare al forno, infatti...

“Ridotta la pasta alla convenevole (adatta) consistenza, i giovani del fornaio la riposero in caldana (scompartimento molto caldo sopra la volta del forno), sotto una coperta, ove la pasta fermentò di nuovo. Levatala poi di là sotto, la tagliarono in pezzi più o meno grossi, cui diedero la forma di pane rotondo, di picce (due panini attaccati a coppia), di fili di pane e di panettini; e colla pala gl’introdussero nel forno, ben ripulito dalla cenere. Il capo fornaio vigilava attentamente acciocché ognuna di queste operazioni fosse eseguita a dovere e perché il forno venisse riscaldato né più né meno: il che non è tanto facile ad indovinarsi.
La pasta chiusa nel forno si sollevò, s’indurì e fece la crosta. Il fornaio, che aveva sempre l’occhio al pane, colse il punto della sua giusta cottura, e colla pala tirò fuori ad uno ad uno i pani. Questi non si devono mangiare se non dopo che divennero freddi“.

Ecco il buon pane fragrante di un tempo! Ma soffermiamoci ancora su certe riflessioni del Parravicini che conclude…

“Il pane è la sussistenza del povero; anzi nessuno fra noi vive senza mangiare pane ogni dì; quindi i mestieri del mugnaio e del panettiere sono di prima necessità e spesso arricchiscono quelli che gli (li) esercitano in grande e onestamente.”

Il pane nell’Ottocento era così diffuso e ricercato che costituiva anche una fonte di reddito: fare il mugnaio o il panettiere significava avere in mano un buon mestiere, capace anche di dare ricchezza. Tuttavia pensando alla storia italiana, che è stata anche una storia di povertà e di ribellioni popolari, ricordiamo non pochi casi di assalti ai forni, visti dalle masse dei contadini o operai come il simbolo di una vita divenuta sempre più cara che portava benessere a pochi, ma miseria ai più. Il pane, il sostentamento quotidiano per eccellenza, per molti divenne il segno della sopravvivenza, anzi gran parte dei contadini non consumava neppure il buon pane bianco, ma per nutrirsi doveva ripiegare su qualità meno pregiate, come il pane nero fatto di segale, o sua altri cibi come la polenta. Tuttavia la centralità dei mulini e dei forni si mantenne per lungo tempo e sui mulini non mancò di allungare il suo occhio implacabile la fiscalità dello stato. L’Italia ottocentesca, economicamente, era un paese arretrato e, politicamente, solo dopo il 1861 cercò di mettersi allo stesso livello del resto dell’Europa diventando uno stato unitario di dimensioni medio-grandi. Ma l’organizzazione dell’Italia unita fu un fatto molto costoso, difficile da affrontare da parte di uno stato gravemente in deficit e di una classe dirigente che dovette risolvere mille problemi: dalla burocrazia all’esercito, dalle infrastrutture alla scuola. Fu così che questa classe dirigente, nota come la Destra Storica ed impegnata diligentemente ad aumentare le entrate dello stato, non esitò ad imporre pesanti tasse agli italiani, ricchi o poveri che fossero. Nel 1868 rimase tristemente famosa l’imposta sul macinato, ossia la tassa che gravava sulla produzione dei mulini, che dovettero munirsi di contatori per l’esatto conteggio dei cereali che macinavano. Era una imposizione onerosa che aumentò il prezzo del cibo quotidiano e rese impopolare il suo ideatore, il ministro Quintino Sella. Ovviamente non mancarono illegali macinazioni che cercavano di sfuggire al controllo della finanza statale, ma il peso del fisco fu considerato insopportabile dai poveri e causò un profondo malcontento, scoppiato anche in ribellioni violente.
La tassa sul pane rimase in vigore fino agli anni ’80 e fu abolita solo nel 1884, ma anche dopo i più dovettero sempre lottare contro il costo della vita in continuo aumento.





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