Le robe forestiere nell’Italia dell’Ottocento e le tariffe doganali

immagine

Ecco un bell’articolo tratto dalla Gazzetta di Venezia del lontano 25 agosto 1891. Contiene le riflessioni di un noto pedagogo italiano, Aristide Gabelli, che svolse un ruolo importante nel fondare la scuola italiana dell’Ottocento, in particolare quella elementare dell’obbligo, destinata a formare i nuovi italiani.

Nel 1891 l’Italia era diventata da appena 30 anni uno stato unitario e indipendente, cioè libero da potenze straniere.

Solo nel 1861, dopo la fase del Risorgimento, si era formato il nuovo Regno d’Italia: un regno con una popolazione numerosa – circa 21 milioni di abitanti -, di dimensioni territoriali sufficientemente grandi, finalmente capace di porsi - anche se in posizione secondaria - accanto alle altre nazioni europee. La vita del nuovo regno non fu facile per le arretrate condizioni economiche di un popolo che, secondo il pedagogo Gabelli, aveva tanto bisogno di scolarizzazione: gl’italiani, in maggioranza analfabeti, dovevano divenire cittadini preparati e pronti a mettersi alla pari con l’Europa più progredita. Per raggiungere questo obiettivo la strada da percorrere era ancora lunga, molto lunga.


LA STANZA DA PRANZO
Il Gabelli, semplicemente guardando l’arredamento della sua stanza da pranzo, ha modo di capire quanto le capacità produttive dell’Italia del tempo fossero largamente superate da quelle straniere.

“Rannicchiato in un canto della mia modesta stanza da pranzo, vo guardando le cose che mi sono intorno, dalle quali mi pare di poter comprendere, senza bisogno d’indagini, né di studi, le condizioni economiche del mio paese. Quella lampada, che pende dal soffitto, ci è venuta di fuori, come di fuori ci vennero il tappeto che copre la tavola e l’orologio attaccato al muro. Forestieri son pure la macchina da cucire, là sopra il tavolino, gran parte delle stoviglie riposte in vetrina, le molle dell’ottomana, la stoffa che le ricopre, e così pure quella delle tendine. Similmente stranieri sono quei due candelieri di alpaca e le oleografie colle loro cornici, che stanno sulle pareti. Che più? Straniere, venute dalla Carinzia, sono perfino le tavole di abete dipinto, che coprono il pavimento. In conclusione, di propriamente nostro non vi sono che i mobili di noce, le sedie, la credenza e i tavolini.”
Ecco una classica sala da pranzo di fine Ottocento! E’ la stanza per eccellenza della famiglia borghese, da collocare quindi in un ceto sociale mediamente benestante. Infatti non tutti a quei tempi potevano permettersi una sala da pranzo!
Nella stanza troviamo alcuni elementi di arredo: la lampada, i tendaggi e le coperte di vario tipo, il divano che si può trasformare rapidamente in letto – ossia l’ottomana -. Non manca neppure una nuova invenzione tecnologica: la macchina per cucire, che proprio a metà Ottocento ha fatto la sua comparsa negli Stati Uniti, paese dalle grandi industrie e dai numerosi brevetti.
Vediamo che, anche senza lussi e con la sola concessione dei candelieri - che sono di alpaca cioè di una lega di rame, zinco e nichel, la quale ricorda l’argento ma costa meno dell’argento - e dei quadri, una normale sala ha bisogno di non pochi oggetti per essere arredata in modo conveniente. Colpisce, però, che gran parte di questi oggetti non siano prodotti italiani, ma stranieri. Fanno eccezione solo i mobili, che nell’Ottocento sono ancora fabbricati da artigiani, che per lo più lavorano su ordinazione. Nel complesso l’Italia non dispone né di una tecnologia né di una imprenditoria, capaci di rifornire le case dei ceti più o meno ricchi dei fondamentali beni di consumo.


TROPPE ROBE FORESTIERE
La scarsa produttività italiana si aggrava passando ad altri campi, che vanno dall’abbigliamento a settori, come per esempio le ferrovie, dove l’Italia è largamente dipendente dalla tecnologia straniera. Per questo il Gabelli fa il seguente commento:
“Così è da per tutto. Non solo in qualunque casa, ma in qualunque luogo si metta piede, in teatro, al caffè, sotto la tettoia di una stazione ferroviaria, sorge spontanea la medesima osservazione. Anzi, perché questa sorga, basta guardarci addosso. Se si tolgono il cappello e gli stivali (che il più delle volte, non sempre, son roba nostra), dal pastrano al panciotto, e spesso anche alla camicia, ci vestono l’Inghilterra e la Francia, la Germania e la Svizzera. Non è bello, né piacevole a dire, ma insomma è così.”
Gli italiani di fine Ottocento importano troppo ed esportano poco: è così che la loro bilancia commerciale è pesantemente in passivo!


LA BILANCIA COMMERCIALE
Il Gabelli sulle importazione ed esportazioni italiane, che costituiscono proprio la bilancia commerciale dello stato, così si esprime:
“E tuttavia non sarebbe un gran male, quando producessimo di altri generi, e vendessimo agli stranieri quel tanto che ci bisogna per comperare da loro tutta questa roba. Ma purtroppo, per quanti conti si siano fatti, s’è tornato sempre a trovare che quello che vendiamo agli altri resta ogni anno inferiore, da 300 fino a 500 milioni, a quello che compriamo. E come sosteniamo questa maggior spesa, permanente? In vari modi… ma specialmente coll’aumento della carta e di tutti i valori rappresentativi, vale a dire col credito. Siccome però la roba che comperiamo dagli stranieri dobbiamo pagarla in oro, come in oro paghiamo loro anche gli interessi della nostra rendita, così l’oro se ne va, e noi siamo costretti a recuperarlo pagando un aggio, per modo che la stessa somma va e torna continuamente. Ma noi, oltre al resto, per riaverla, vi rimettiamo l’aggio.”

L’Italia, paese povero, usa negli scambi commerciali la lira che è una moneta debole rispetto alle monete delle più ricche Inghilterra, Francia, Germania ed America del Nord.
Durante l’Ottocento la politica finanziaria dell’Inghilterra, allora la più grande potenza economica, aveva imposto il sistema monetario noto come “gold standard”: l’oro, con cui nelle epoche passate si erano coniate le monete, veniva preso come l’unità fissa di riferimento per stabilire il valore del denaro circolante – in particolare quello di carta – in uno stato. Questo implicava la cosiddetta “parità aurea” delle monete, che dovevano corrispondere ad una quantità di oro ufficialmente stabilita quindi, se richiesto, potevano essere convertite in oro. Il “gold standard” aveva lo scopo di garantire la stabilità negli scambi monetari del mercato mondiale, dove risultava forte la moneta dello stato che, esportando molto, attirava oro straniero nelle finanze nazionali. L’Italia che comperava tanti prodotti esteri – appunto le robe forestiere del Gabelli - aveva una bilancia commerciale in passivo, poiché esportava nei mercati stranieri pochi prodotti, mentre importava molto dall’estero. Per di più al continuo bisogno di denaro, richiesto da una borghesia ormai emergente dopo l’unificazione del paese, lo stato rispondeva emettendo troppa carta-moneta, cioè troppi “valori rappresentativi” o sostitutivi della moneta metallica. Fin dal lontano 1863 il Regno d’Italia, dovendo governare un paese economicamente povero, aveva introdotto il corso forzoso delle monete cartacee: le banche che emettevano denaro erano autorizzate a stampare lire in quantità consistenti, poiché non vi era l’obbligo che tutto il denaro circolante fosse convertibile in oro. Questo spiega “l’aumento della carta”tanto criticato dal Gabelli: aumento che servì a rendere più dinamica l’economia interna del paese, ma che ridusse molto il credito degli stranieri nei riguardi dell’Italia, poiché l’oro era sempre il valore di base del mercato internazionale. La lira italiana per molti decenni fu una moneta non ancorata all’oro e per questo deprezzata. Se voleva entrare nei mercati esteri doveva pagare questo deprezzamento: l“aggio”di cui si parla nel brano. Soltanto nel 1902 le condizioni finanziarie dell’Italia migliorarono e migliorò anche il suo credito: da allora non si pagò più il tanto deprecato “aggio”.


DAZI: VANTAGGI PER POCHI, DANNI PER MOLTI
Ma come ridurre le importazioni italiane? – Con i dazi! – dicevano gli industriali italiani, che il Gabelli così cita:
“Colpa del Governo, - dicono alcuni, secondo il solito -. Non vi sono dazi, non c’è protezionismo sufficiente alla nostra industria. Se vi fosse, ci fabbricheremmo quello che ci bisogna, e l’oro non fuggirebbe.”

Ma subito aggiunge:

“Ma come non vi son dazi, non c’è protezione? Lo dicono gli industriali, che naturalmente non trovano mai di essere protetti abbastanza. Ma quello che a loro pare poco, agli altri pare troppo. Pare troppo, per esempio, a tutti i consumatori, dai quali la protezione alla industrie viene pagata; e par troppo in particolare agli agricoltori, in quanto gli stranieri, dacchè (da quando) noi carichiamo di dazi i loro prodotti industriali, si rivalgono caricando di dazi i nostri prodotti agricoli. Non poche volte la protezione conceduta alle industrie è tale, che noi lavoriamo per la compiacenza di lavorare, ma rimettendoci un tanto di borsa (cioè di tasca nostra). Così, per esempio, noi lavoriamo il ferro, ma non avendo il carbone, finiamo col pagarlo di più, che se, in luogo di comprarlo greggio per lavorarlo, lo comprassimo lavorato. Egli è che a forza di artifizi e di puntelli non si tien su quello che per natura cade.”

Qui è chiaro il riferimento al protezionismo, cioè alla politica di dazi introdotta in Italia negli ’80, che Il Gabelli da vero liberale critica aspramente mettendone in evidenza i danni. Il protezionismo elimina la competizione fra quanti producono - sia nell’industria sia nell’agricoltura - e per questo mantiene alti i prezzi delle merci danneggiando i semplici consumatori, che pagano di più quello che una politica di liberi scambi fra stati farebbe costar di meno.

Dopo il Risorgimento, l’Italia fu governata da politici liberali. Prima, nel 1861 - 1876, furono i liberali della famosa “Destra Storica”, che partendo da un’Italia divisa in tanti stati e staterelli riuscirono a creare, anche se con pesanti tasse pagate dagli italiani, le strutture di base dell’Italia unita. Successivamente, dal 1876 fino ai primi decenni del Novecento, entrarono in scena i liberali della “Sinistra”. Proprio questi ultimi introdussero le tariffe protezionistiche del 1887: queste imponevano dazi sulle merci straniere per proteggere quelle prodotte in Italia, che potevano così circolare tranquillamente nel mercato interno, senza temere la concorrenza dei beni provenienti dall’estero. In un primo tempo il provvedimento non fu del tutto negativo, poiché favorì lo sviluppo delle nascenti industrie italiane che, da sole e senza l’aiuto statale, non riuscivano a competere con le più avanzate industrie d’oltralpe. Non per nulla nel brano il Gabelli ricorda gli industriali che erano i più convinti sostenitori del protezionismo. Ma questo protezionismo, che poteva limitare l’uscita dal paese delle riserve nazionali di oro, a chi faceva bene? Soprattutto agli stessi industriali che vendevano e prosperavano, mentre non faceva bene a tutta quanta la popolazione italiana.


LE TARIFFE DEL 1887
Le tariffe, volute dal governo di un politico famoso come Francesco Crispi, imposero pesanti dazi sui beni di importazione: grani, acciaio e pezze di cotone. Causarono la fine di un trattato commerciale fra Italia e Francia, con cui in precedenza molti agricoltori italiani producevano per i mercati francesi e davano incremento alle esportazioni. Ai dazi italiani la Francia reagì con la famosa “guerra doganale”: mise pesanti tasse su agrumi, ortaggi e oli italiani. Da qui derivarono danni soprattutto per la viticoltura meridionale e tutta l’Italia pagò più cari i beni industriali provenienti dall’estero.
Chi fu avvantaggiato dalle tariffe protezionistiche? Fu favorito quello che gli storici hanno definito il “blocco industriale-agrario”: gli industriali del Nord, insieme con le banche che li sostenevano, ed i grandi proprietari terrieri del Sud. Ma favorire un ristretto blocco sociale non significò il bene di tutti.

Nell’Italia del Nord gl’industriali, non costretti a competere con gli stranieri, a lungo andare non cercarono di migliorarsi per mettere sul mercato merci di qualità a prezzi convenienti. A questo si aggiunse un altro aspetto negativo, proprio di un’Italia povera di miniere di ferro e carbone, da cui estrarre le materie prime indispensabili ad attività industriali come i settori siderurgico e meccanico. Queste materie prime venivano per necessità importare dall’estero e di conseguenza le industrie italiane producevano a costi più elevati di quelle straniere, come spiega il Gabelli quando chiarisce che i manufatti industriali a volte venivano lavorati “rimettendoci un tanto di borsa”.
Passando dall’industria all’agricoltura, le cose non cambiavano.

Nell’Italia del Sud i dazi sui grani stranieri favorirono i grandi latifondisti agrari che, non avendo concorrenti, fecero come gli industriali del Nord: non si impegnarono a produrre meglio e di più e mantennero alti i prezzi del pane. Pane che incideva sulle povere risorse dei ceti meno ricchi.

In verità i dazi protettivi sui grani erano stati richiesti fin dal lontano 1874, anno critico per l’economia europea che andò incontro a quel periodo noto come la “grande depressione” degli anni 1874 – 1896. La depressione iniziò con una crisi agraria provocata dall’arrivo in Europa di grani americani meno cari, che fecero concorrenza ai grani europei e causarono il calo della produzione dei cereali in Francia, in Inghilterra ed in seguito anche in Italia.

Questa congiuntura avrebbe dovuto favorire una riorganizzazione della agricoltura italiana secondo tecniche più avanzate; determinò, invece, l’incredibile intreccio di interessi fra due gruppi tanto diversi: gli industriali del Nord che rappresentavano il nuovo ed i latifondisti del Sud ancora legati alla vecchia coltivazione estensiva. Tutti e due favorevoli al protezionismo.

Ma il protezionismo, anche se passò come linea di governo, provocò le critiche di molti scontenti, come il grande economista Luigi Einaudi che difendeva l’interesse generale del paese contro gli interessi particolari dell’industria e della cerealicoltura. E con Einaudi è concorde il nostro Gabelli, convinto del fatto che “gli artifici ed i puntelli” del governo non sono i mezzi adatti a costituire una buona economia. Questa deve essere sana e sapersi mantenere senza sostegni oppure, inevitabilmente, è destinata a crollare! Osservazione confermata dalla storia italiana, che vide gli anni 1888 – 1896 segnati da grandi difficoltà, che colpirono i ceti meno fortunati. Molti contadini caddero in miseria ed emigrarono in altri paesi: iniziò l’avventura degli italiani che partivano per “trovare l’America”.


Torna alla pagina precedente