Le robe italiane nell’Ottocento: importare ed esportare

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Il pedagogo Aristide Gabelli, organizzatore della scuola elementare nell’Italia di fine Ottocento, è una figura interessante che è bene ogni tanto ricordare per la sua saggezza. Per esempio un suo articolo, comparso sulla Gazzetta di Venezia del 25 agosto 1891 a proposito della debole economia italiana del tempo rispetto a quelle straniere, ci sembra ricco di considerazioni che, anche se non sono complesse teorie economiche, appaiono consigli pieni di buon senso.


COMPRARE DI MENO E PRODURRE DI PIU’
Il Regno d’Italia nel 1891 è un paese arretrato che non riesce a produrre beni, non solo nell’industria ma anche in agricoltura, capaci di conquistare i mercati stranieri. Per questo le sue esportazioni, cioè le merci che vende all’estero e che attirano denaro straniero, sono sempre inferiori alle importazioni che purtroppo causano l’uscita dall’Italia del denaro nazionale. Nell’articolo il Gabelli lamenta proprio le troppe robe forestiere presenti nel mercato italiano e ricorda uno dei più famosi provvedimenti presi dal governo per limitarle: le tariffe doganali del 1887. Queste tariffe avevano lo scopo di aumentare i prezzi delle merci straniere, gravandole di dazi prima che entrassero nel mercato italiano. Tutto il provvedimento avrebbe dovuto favorire le merci italiane, che potevano circolare in Italia senza temere la concorrenza delle più efficienti industrie d’oltralpe, ma in realtà ebbe effetti controversi: favorì pochi e danneggiò molti. Infatti gli industriali del Nord ed i latifondisti del Sud riuscirono a vendere a prezzi redditizi le merci che producevano con metodi antiquati e poco efficienti; di conseguenza queste stesse merci erano piuttosto care rispetto a quelle estere, che erano migliori e più convenienti. Questo andò a discapito di tutti i consumatori italiani, sia ricchi sia poveri.

Il Gabelli quindi non risparmia critiche alle tariffe doganali e, dicendosi favorevole ad una economia che stia in piedi da sé senza il sostegno dei dazi statali, spiega che resta una sola via per creare un po’ di ricchezza: convincere gli italiani a comperare di meno e a produrre di più. Leggiamo le sue considerazioni:
“Il Governo fa quello che è possibile, in mezzo a tante e spesso opposte esigenze e difficoltà; ma i soli che possano fare qualche cosa, persuadiamocene, siamo noi. Per rimettere in assesto il bilancio economico d’una nazione, non ci sono se non due modi; quei due stessi e quei soli, che valgono per riassestare il bilancio finanziario dello Stato e similmente delle famiglie: o diminuire le spese, o accrescere le entrate. Per la nazione diremo: o comprare meno o produrre di più. La nazione poi, un corpo enorme con tante forze, può metterli in pratica tutt’e due contemporaneamente, rendendo così gli effetti molto più rapidi.

Quel subisso di roba straniera (gran quantità di beni importati), che c’invade e che noi compriamo allegramente, malgrado i dazi che ne aumentano i prezzi, è richiesto in parte dai lavori pubblici, dai bisogni delle industrie ecc.; ma in parte anche dall’amore dell’eleganza e del lusso, cresciuti incredibilmente da trent’anni in qua. E’ cosa che tutti sanno e tutti vedono…”
Dall’articolo si comprende che l’Italia del 1891 è un paese non prospero, ma tutto sommato attivo: ha energie per realizzare lavori pubblici, per fondare industrie ed anche per soddisfare le esigenze di lusso di una borghesia divenuta più forte dopo la creazione del Regno. I 30 anni, ricordati nel brano, sono quelli che vanno dalla fine dell’eroico periodo risorgimentale, che nel 1861 ha fatto degli italiani un popolo unito ed indipendente, all’ultimo decennio dell’Ottocento in cui già emergono le capacità di questo nuovo popolo che dovrebbe allinearsi alle più progredite nazioni europee.

Di fronte ai nuovi italiani il Gabelli non nasconde una certa perplessità: li trova o poco disposti a lavorare di più per migliorare la loro economia, senza attendere miracoli dal governo, o poco inclini a risparmiare se hanno raggiunto un certo benessere. Tira fuori a questo punto lo spirito del pedagogo che con esempi storici, persino curiosi, cerca di convincere gli italiani prima a spendere di meno, poi a produrre di più .


GUSCI D’UOVO E BOTTIGLIE COLORATE
Proveniente da quel Lombardo-Veneto che era stato un’area laboriosa e amministrata meglio di altre regioni italiane, il Gabelli si rifà alla sua terra d’origine per ricordare che in un passato non troppo lontano gli italiani erano stati capaci di vivere sobriamente.

“ Una coserellina sola dirò, a titolo di curiosità, da cui apparisce pure quanta fosse in altri tempi la nostra parsimonia e come ci accontentassimo facilmente. Nei primi anni di questo secolo, in tutte le farmacie di Venezia, si vendeva l’olio di ricino e l’olio di mandorle nei gusci d’uovo. Nessuno può desiderare di far ritorno a usanze così patriarcali. Ma fo per dire, che le nostre abitudini divennero in breve tanto differenti da prima, quanto dal guscio d’uovo differiscono le belle bottigliette colorate e smerigliate, con soprascritte, indirizzi, suggelli, carte ed elastici, che abbelliscono le nostre pozioni medicinali d’oggi, e intingono nella nostra saccoccia”.

Queste farmacie veneziane, emerse da tempi lontani, mettono bene in luce i cambiamenti di un secolo di profonde trasformazioni, che inizia con i gusci d’uovo, usati come contenitori di medicinali, e termina con le più igieniche confezioni sigillate di prodotti farmaceutici.
Questi modi di vivere ci interessano non tanto per curiosità storica, quanto per esaminare come i costumi quotidiani siano strettamente collegati al livello di vita di un popolo. Il Gabelli infatti, come organizzatore di scuole, si preoccupa di formare uomini con abitudini e stili di vita utili per il progredire di tutta una società. Così ammonisce soprattutto gli italiani privilegiati che godono di una certa fama:
“Ma che ci può, si dice, sulle abitudini e sui costumi di una grande popolazione?
Io ho sempre veduto penetrare nelle popolazioni, e finire a guidarle, certe correnti di idee. Tutto è che un’idea diventi moda. E dev’essere tanto difficile far diventare di moda, in un paese intelligente, quest’idea, che è venuta la necessità di spendere meno, altrimenti, continuando come facciamo, finiremo coll’andare a rotoli e non poterci rialzar mai più?
Supponiamo che in una grande città, dieci o quindici tra le signore più in vista, amate dal desiderio di essere utili al loro paese, si mettessero per amor di patria a vestire con semplicità e modestia… senza dubbio…sarebbero più stimate. E credesi che ci vorrebbe molto, perché tutte le altre andassero loro dietro, e lo spendere con misura, avvedutamente, aiutando, per quanto possibile, le industrie nazionali, pensando sul serio a riassestare la propria famiglia e il proprio paese, diventasse un sentimento comune?”


L’ESEMPIO DELL’IMPERATRICE D’AUSTRIA
In un popolo il buon esempio inizia sempre dell’alto: i ceti alti possono dare un’impronta, nel bene o nel male, che se si estende a tutta una nazione. Per questo il Gabelli ci offre un esempio tratto da una famiglia di grande prestigio: quella degli Asburgo, che erano gli imperatori d’Austria.

“L’Austria era rimasta rifinita dalle guerre napoleoniche, e si dibatteva in mezzo a mille difficoltà finanziarie, che avevano, al solito, il loro riscontro nelle economiche delle popolazioni. L’imperatrice, moglie di Ferdinando, che aveva testa anche per suo marito, non esitava a rimproverare le dame, che si presentavano a corte vestite sfarzosamente, dicendo loro: - Quando io vesto così, vuol dire che mi faranno doppio favore, se verranno a corte vestite come me -.”

Ecco l’Austria, potente stato dell’Europa ottocentesca, che dominava l’Italia direttamente nel Nord-Est e indirettamente su tutti gli staterelli italiani! Ma anche una grande potenza ha le sue congiunture negative e l’Impero Austriaco ne affrontò una proprio nei primi anni dell’Ottocento, quando una pericolosissima rivale, che era la Francia di Napoleone Buonaparte, più volte umiliò gli eserciti austriaci sui campi di battaglia. Tuttavia l’Austria uscì dal pericolo e arrivò al trionfo, riportato nell’importante evento storico avvenuto nel 1815 proprio nella sua capitale: il Congresso di Vienna.

Dopo il 1815, però, le finanze austriache uscirono dissestate dalle precedenti spese di guerra e nelle ristrettezze si distinse la stessa imperatrice: la principessa piemontese Maria Anna di Savoia, sposa dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo. Questa figura di donna, per capacità superiore al marito ricordato dalla storia come inadatto a governare per limiti fisici e mentali, seppe essere all’altezza del suo ruolo non tanto per preparazione politica, quanto per un esemplare buon senso. Capì che, quando i soldi sono pochi, anche per una imperatrice e per un grande stato la via più saggia è evitare gli sperperi. Ed anche i nuovi italiani avrebbero dovuto possedere almeno un po’ di questa saggezza!


PATRIOTI MILANESI E SCIOPERO DEL FUMO
Un altro esempio è tratto da quel Risorgimento, che segnò una fase di meritato orgoglio per l’Italia. Gl’italiani, finché furono impegnati a lottare per la libertà, furono capaci di grandi sacrifici e lontani dalle frivolezze; solo dopo, quando ormai era finito lo spirito eroico del Risorgimento, si diffusero quei lussi e quelle mode, persino ridicole, che tanto piacevano ai nuovi ricchi. Per questo il Gabelli ricorda la rivolta di Milano del 1848 che, anche se fallì, rappresentò un momento cruciale per la liberazione italiana. I milanesi di allora si erano ribellati in tutti i modi per causar danni ai loro dominatori austriaci; cercarono persino di boicottarli finanziariamente. Per non contribuire alle entrate che il governo austriaco traeva dal monopolio sul tabacco, promossero il famoso “sciopero del fumo” e si imposero di non acquistare i sigari tassati da Vienna. Scoppiarono anche tafferugli e gli italiani non esitarono ad affrontare le violenze delle milizie austriache di stanza a Milano.

Ovviamente la ribellione più efficace fu solo una: la guerra. E la vittoria venne non con la I guerra d’indipendenza, collegata alla rivolta milanese del ’48, ma con la II guerra di indipendenza del 1859, dove contro le forze militari austriache si schierarono ben due eserciti: quello piemontese e quello francese. Anzi per ottenere anche il Veneto fu necessaria, quando già era stato proclamato il Regno d’Italia, una III guerra di indipendenza: quella del 1866. Così il Gabelli ricorda i fatti di allora:
“Ma che abbiamo bisogno di guardare fuori, per cercar gli esempi? Guardiamo al nostro passato, a quello che fummo capaci di far noi stessi. Prima del quarantotto, era si può dire una gara a chi spendeva meno. Si vestiva di grossi panni e di tele nazionali. Che più? Passò una parola d’ordine e tutti si astennero dal fumare. Era una ridicolaggine, sperare di rovinare l’Austria facendo a meno di fumare; ma una di quelle ridicolaggini che… rivelano la forza del patriottismo. Certo i matti di allora valevano quei savi di adesso, che vanno in giro con un cappellino bianco, gli occhiali affumicati sul naso, un ombrellino in mano e nell’altra un ventaglio: figurine cinesi, che mostrano l’efficacia dei tanti discorsi che si sentono sulla ginnastica.”


PICCOLE INDUSTRIE
Dopo gli inviti a spender di meno si passa ai consigli per produrre di più. A tal proposito il nostro autore non affronta la difficile questione delle industrie pesanti come quella siderurgica, in cui l’Italia è svantaggiata per la mancanza di ferro e carbone; ma si limata a presentare soprattutto casi di operosità che possono trasformarsi in attività imprenditoriali. Sono industrie minori come quella dei giocattoli o di oggetti casalinghi che, se prodotti in Italia e non importati dall’estero, possono ridurre il disavanzo della bilancia commerciale italiana; se poi si è anche capaci di esportarli, si può favorire la ricchezza nazionale. Seguiamo il ragionamento del Gabelli:
“Quanto al produrre di più, pare una faccenda anche più difficile a primo aspetto, appunto per la debole protezione, secondo alcuni, e per la scarsezza di capitali.
Ma quante industrie non vi sono protette da dazi enormi e che non domandano se non capitali esigui? Io ho qui sulla scrivania, intagliato in legno, un pastorello appoggiato a una gerla, che serve per mettervi i fiammiferi. E’ una cosa grossolana, che un contadino tirolese o svizzero fa con due o tre coltellini in mezza giornata, ma che, quando è qui, costa un paio di lire. Or dunque, roba simile non potrebbe essere fatta da qualche popolazione nostra, in cui le tradizioni di certi lavori non mancano, e soltanto richiedono d’essere migliorate cogli esempi, col disegno, con scuole apposite?
Nella Svizzera Sassone, in quei monti dove l’Elba s’apre a fatica il varco dalla Boemia in Sassonia, c’è una popolazione povera quant’è pittoresco il paese, e presso la quale era tradizionale l’industria dei vimini. Facevano alla meglio dei canestri, dei cesti grossolani. Un uomo d’ingegno e di cuore, il capitano in pensione Clauson-Kaas, aiutato anche dal suo governo, introdusse maestri e scuole industriali, perfezionò il lavoro tanto che si giunse a fare dei cestellini elegantissimi di tutti i colori, e dopo tre o quattro anni, come mi diceva egli stesso, aveva ricevuto in ottobre commissioni che ammontavano per l’invernata a dodicimila talleri.”
Da questo si capisce che gli italiani devono guardare al di là delle Alpi, imparando dai loro vicini tirolesi o svizzeri; oppure ispirandosi anche alla più lontana Germania, dove non tutti sono operai nelle gigantesche industrie degli acciai della Renania, ma alcuni, come i tedeschi della Sassonia – e più precisamente di quell’area nominata Svizzera Sassone - , sono produttori di eleganti oggetti fatti di materiali, come i vimini, tecnologicamente molto più modesti dell’acciaio.


I GIOCATTOLI
Anche i giocattoli potrebbero diventare una fonte di guadagno e per questo leggiamo i toni accorati del Gabelli, che lamenta la scarsa vocazione imprenditoriale di certi ricchi italiani, che a lungo rimasero legati ai beni immobili, ossia alle terre, piuttosto che impiegare i propri denari in attività produttive :
“Entriamo da noi in una bottega di giocattoli. Tutta roba forestiera. Molta certamente di troppo fine fattura, per poter essere con facilità imitata. Ma vedasi, per esempio: ci sono quelle scatole di cubi che servono per i fanciulli a combinare una carta geografica o un disegno di figure. Si pagano due o tre lire, ed è roba che in tutto non vale dieci centesimi, e non c’è artista, sia pur mediocre, tra noi che non sapesse farla. Ma dicasi che uno ci si metta! Che un signore, e ce ne sono tanti e di buona volontà, facendo un’opera veramente utile al suo paese, prenda con sé un paio di stipettai (falegnami) d’ingegno e li conduca seco a fare un giro in Tirolo e in Baviera, per trapiantar fra noi quel tanto che può!
Lo stesso accade per infinite altre cose, di innumerevoli oggetti domestici, che continuiamo a comprare da fuori, mentre con pochi capitali ce li potremmo far noi: roba di latta, di ferro battuto, di vimini. Quanto non sarebbe più facile produrre di più!”
Tuttavia a proposito di giocattoli non mancò a fine Ottocento un riuscito esempio di imprenditoria, sorto proprio secondo le condizioni care al Gabelli: con pochi capitali e senza il puntello delle tariffe doganali governative. Si legge in una nota di un testo scolastico (Prose e Poesie Italiane annotate da Luigi Morandi, edite nel 1892) che ad Asiago, per merito di un certo G. Lobbia, iniziò a lavorare una fabbrica di giocattoli attorno al 1889. In pochi anni questa industria, apparentemente di poca importanza, riuscì a dar lavoro a centinaia di operai, che vennero così liberati dal bisogno e dalla necessità di emigrare. Oltre ai giocattoli, la fabbrica produceva oggetti piccoli, come scatole di vario tipo per il lucido, per i lumini da notte, per le medicine, per i gioielli e tanto altro.
Per comprendere, però, come allora venisse considerata dagli stranieri non la grande industria ma la stessa piccola industria italiana, è utile aggiungere l’ultima parte della nota:
“Ma a proposito dei lumini da notte, che pure è una delle piccole industrie italiane la quale non teme più forse la concorrenza straniera, tutti i fabbricanti si dolgono d’essere ancora costretti dai committenti, sotto pena di vedersi rifiutata la merce, a stamparvi su una falsa marca francese o tedesca o inglese, come succede per tante altre cose: segno, da una parte, della diffidenza che tuttavia ispirano, e non sempre a torto, i prodotti nazionali; e, dall’altra, della servitù che ci è rimasta nell’animo.

Tempo fa una gran dama si presentò ad un ballo di Corte con un abito guarnito di magnifici fiori finti, fatti a Roma da mani romane, e disse a tutti che erano venuti da Parigi.”
Si tratta di una semplice annotazione, che però dice tante cose. Testimonia con quanta difficoltà sia diventata veramente libera l’Italia che, resasi indipendente nel 1861 dopo circa tre secoli di colonizzazione straniera, ancora nel 1892 si portava dentro gli effetti psicologici della passata “servitù”.

Inoltre i frutti del lavoro italiano per decenni non godettero di buona reputazione all’estero e questo avvenne in molti casi non a torto. Ma che dire dei lumini da notte? Sembra eccessivo che non fossero apprezzati se di marca italiana e che piuttosto si ricorresse alla frode commerciale per poterli vendere. Questo, però, era il modo di sopravvivere dell’economia italiana che faceva passare, per esempio, per francesi merci tutte italiane. Persino una gran dama, in verità truffaldina, non esitava a spacciare per moda francese qualche bel prodotto di sartoria italiana.



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